
L’uomo che soffre, l’uomo che cura
Nel nostro mondo della vita siamo entrati in un rapporto nuovo anche con il soffrire e con le dinamiche della cura e della guarigione.
Spesso si concentrano domande e bisogni complessi e confusi. Si accrescono le aspettative nei confronti della cura medica e delle sue tecniche.
Non sempre le nostre attese trovano soddisfazione, o perché sono sproporzionate oppure perché in realtà è la relazione interpersonale che si è impoverita e complicata.
Forse siamo chiamati a riordinare e a condividere con maggiore pazienza e informazione sia il nostro immaginario sulla salute e sulle cure, sia a trovare nel dialogo e nella condivisione tra tutti i soggetti la via più saggia e più umanizzante.
Programma
9.30-13.00 interventi a cura di
• La cura tra umanizzazione e tecnicalizzazione | Tommasi Roberto, Preside Facoltà Teologica del Triveneto
•Il malato tra incurabilità e inguaribilità | Barbisan Camillo, Servizio di Bioetica, Azienda Ospedaliera di Padova
14.00-16.30
WorkApp Il dolore: come affrontarlo? Esperienze di etica applicata
intervento di introduzione ai lavori di gruppo a cura di
• Bonetti Marco, Servizio Qualità e Sicurezza del Paziente, Azienda ULSS 6 Reg. Veneto
coordinamento dei gruppi di lavoro a cura di
•BERTIN Germano, Bon Giuseppe, Gasparetto Alessandra, Pozzato Alex, Sandonà Leopoldo

Professioni Accoglienza
Il momento storico-sociale che stiamo attraversando, con l’accavallarsi e il rincorrersi quotidiano di avvenimenti accelerati dalla comunicazione globale, sembra avere un tema di sottofondo che stentiamo ad assumere all’interno di una riflessione piú matura e ponderata. Non fatichiamo ad accorgerci che questo tema concerne l’incontro con l’altro. A differenza del secolo scorso che si è chiuso con una vasta riflessione sull’altro, accostata da diversi punti di vista, questo inizio del secolo XXI sembra essere incappato proprio nelle labirintiche difficoltà del rapporto con l’altro. La situazione politica, sociale, religiosa, ambientale ed economica di questo ultimo scorcio di tempo, continua a gettarci davanti (è il significato etimologico della parola “problema”) le interminabili sfaccettature e dimensioni dell’incontro con l’altro. Sembra che abbiamo smarrito irreparabilmente quanto evidenziava il grande antropologo Claude Lévi-Strauss: «La scoperta dell’alterità è quella di un rapporto, non di una barriera». Sembra, per l’appunto, che noi facciamo l’esperienza piú della barriera che del rapporto.
Per questo qualcuno inizia a mettere in cima alle sfide del secolo XXI la questione dell’incontro con l’altro. Non a caso, l’antropologo francese Marc Augé ha affermato che è urgente ripensare la nozione di frontiera in un’epoca che vorrebbe disfarsene: «la frontiera non dovrebbe essere vista come una barriera insuperabile quanto piuttosto come un confine che può e deve essere attraversato e, ancora, come un limite da rispettare perché definisce la distanza minima necessaria per essere veramente liberi». La nostra epoca non vuole saperne di frontiere, proprio perché pensa di ricostruire muri. E i muri chiudono il nostro sguardo verso l’altro, mentre la frontiera indica la presenza – possibile e imminente – dell’altro. E non si tratta solo di ripensare il senso delle frontiere geopolitiche, ma anche di quelle piccole frontiere quotidiane che tanto nel posto di lavoro quanto nelle relazioni familiari, sembrano presentare problemi crescenti.
Eppure, anche di fronte a dinamiche sociali che sembrano smentirlo, il principio chiave dell’essere umano può essere cosí riassunto: è interessandosi agli altri che si impara a conoscere sé stessi. Cercare di conoscere l’altro da sé, come ha affermato ancora Marc Augé, significa mettere alla prova la relazione – fra un individuo e gli altri – che sta al centro dell’identità sociale, ma anche personale. Migliorare questa conoscenza significa abbandonare l’isolamento, sia per quanto riguarda me stesso, sia per quanto riguarda gli altri. “Mai senza l’altro”, ha osservato Michel De Certau, cogliendo cosí la formula sintetica e la declinazione di questo principio antropologico fondamentale.
Chi è questo altro o, meglio, chi sono questi altri? Ryszard Kapuscinski, da quel grande osservatore e narratore che è stato, ha scritto che sono persone fatte da due parti spesso difficili da separare. Una è l’uomo uguale a noi, con le sue gioie e i suoi dolori, i giorni fasti e quelli nefasti, che teme la fame e il freddo, che sente il dolore come una sventura e il successo come soddisfazione e appagamento. L’altra, sovrapposta e intrecciata alla prima, è l’identità culturale e religiosa. Le due parti non appaiono mai distinte, allo stato puro e isolato, ma convivono influendo l’una sull’altra. Senza mai dimenticare che anch’io, infine, sono sempre un altro per gli altri.
L’accoglienza, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, ma anche tra opportunità e creatività, sta diventando la cifra per affrontare la sfida di questo secolo, quella dell’incontro con l’altro. L’altro che viene da fuori, ma anche l’altro che abbiamo in casa, e che forse abbiamo “costruito” noi, magari perché disabile, svantaggiato, malato, carcerato … Sta di fatto che, a pensarci bene, non vi è professione che non abbia a che fare con l’altro, e non solo in quanto collega, ma anche come interlocutore, utente, cliente, cittadino. Le professioni di fatto hanno qui una opportunità decisiva per ripensarsi nel loro statuto, sociale, giuridico, economico e culturale. L’opportunità di ripensarsi dopo una stagione in cui sono state inghiottite dall’io che “si fa da sé”, che mira solamente alla prestazione remunerata, comunque vada e senza tante etiche, se non a parole.
Questo numero della rivista raccoglie, valorizzando soprattutto le esperienze in atto, una ricca espressione di stili e pratiche di accoglienza per poter riformulare lo spirito professionale che non di rado si è appannato non solo nei singoli, ma anche nelle organizzazioni. Proprio queste pratiche sembrano insegnarci che grazie all’accoglienza dell’altro possiamo ridare senso e valore a ogni professione che ci vede impegnati. E da qui riscoprirci dentro il progetto di costruzione di una umanità non piú ripiegata sull’io, ma valorizzata dal fatto di essere dentro un “noi”.
Lorenzo Biagi

La vita che nasce: dilemmi e potenzialità
La complessità che oggi caratterizza la nostra vita quotidiana coinvolge anche il momento dell’inizio vita, non solo in occidente, ma a livello globale.
Si rende necessaria una rilettura di tale complessità alla ricerca di chiavi di lettura capaci di andare a leggere e affrontare i dilemmi e le potenzialità dell’inizio vita, a partire dall’esperienza concreta di persone, comunità, operatori e istituzioni.
I temi aperti più sfidanti che stanno dinnanzi sono: la diagnosi prenatale, la procreazione assistita, la maternità surrogata, l’aborto.
La giornata formativa (2 dicembre 2017 | 9.30-16.30 c/o Fond. Lanza, Padova | Via Dante 55) proposta dalla Scuola di Bioetica promossa e organizzata dalla Fondazione Lanza insieme alla Rivista “Etica per le professioni” affronterà questi temi affidandosi alle riflessioni proposta dalla dott.ssa Mariateresa GERVASI (Ostetricia e Ginecologia, Azienda Ospedaliera Padova) e al supporto di approfondimento accompagnato da Alex Pozzato, Alessandra Gasparetto, Leopoldo Sandonà, Giuseppe Bon (equipe didattica Scuola di Bioetica | Fondazione Lanza – EPP)

La Scuola di Bioetica promossa dalla Fondazione Lanza e dalla Rivista Etica per le professioni offre la possibilità, attraverso un progressivo itinerario formativo, di implementare la qualità del discernimento su questioni di bioetica.
Grazie a una specifica e innovativa didattica, le diverse figure che conducono la formazione agiscono e si interfacciano tra loro e con i partecipanti secondo il modello dell’apprendimento di gruppo. Attraverso una costante e coinvolta interazione con i partecipanti, si punta alla valorizzazione delle differenti competenze professionali per orientarne l’agire nei rispettivi ambiti di responsabilità.
Finalità prioritaria della Scuola è offrire agli iscritti un metodo di apprendimento e un modello didattico che li renda idonei ad affrontare le diverse questioni e problematiche legate alla bioetica, fino a rendere ciascuno una sorta di “cellula” del buon consiglio, capace di generare e ri-generare in sé e attorno a sé, nella quotidianità e in ogni ambito di vita, una sempre piú alta consapevolezza e determinazione professionale “trasformativa”.
Il Corso a.a. 2017-2018 “Per una bioetica rinnovata” prevede nove tappe che si svilupperanno, con cadenza mensile, tra novembre 2017 e giugno 2018.
PROGRAMMA
• 11.11.2017 (9.30-13) Dialogo sullo “stato di salute” della bioetica oggi
> incontro aperto anche al pubblico
• 02.12.2017(9.30-13) La vita che nasce: dilemmi e potenzialità
• 13.01.2018(9.30-13) La vita che finisce: dilemmi e potenzialità
• 10.02.2017(9.30-13) L’uomo che soffre, l’uomo che cura
• 10.03.2018 (9.30-13) Etica dell’organizzazione sanitaria
> incontro aperto anche al pubblico
• 14.04.2018 (9.30-13) Persone migranti e nuova bioetica: quale relazione?
• 12.05.2018 (9.30-13) Ambiente e salute: prevenzione e stili di vita
• 09.06.2018(9.30-13) L’uomo di fronte ai limiti naturali della condizione umana
30.06.2018 (9.30-13) Bioetica: orientare l’agire professionale
> incontro aperto anche al pubblico
INFORMAZIONI
> Destinatari
• operatori in ambito sanitario
• membri di comitati etici
• insegnanti, formatori, educatori
• funzionari e dirigenti pubblici
• operatori della comunicazione
> Dispositivo didattico
• 60 ore di attività
• lezioni frontali
• attività di rilettura individuale
• incontro con il tutor
• lavoro di gruppo
• dossier di lavoro personale
• verifica di apprendimento e di verifica
> Iscrizioni
• quota di adesione corso intero: 450,00 euro
> 200,00 euro all’iscrizione
> 250,00 euro a inizio corso
• quota singola giornata: 80,00 euro
• quota per studenti
> 300,00 euro corso intero
> 50,00 euro a singola giornata
• n° massimo iscritti: 40 persone
Riconoscimenti
• attestato finale di partecipazione
• crediti formativi (dove previsti)

TRENT’ANNI di BIOETICA
Dialogo sullo “stato di salute” della bioetica oggi
La bioetica viene da una intensa stagione di scritti vari, di articoli, di manuali, di riviste, ma anche da un periodo di contrapposizioni e di scontri che non sempre hanno aiutato le persone a farsi un’idea chiara delle questioni in gioco.
Oggi la bioetica pare essere entrata anche in una stagione nuova, caratterizzata da nuove sfide e nuove emergenze sociali, economiche ed ambientali, oltre che di giustizia sociale, che stanno riconfigurando lo statuto della vita umana e della salute delle persone e delle popolazioni.
Per questo pare essere giunto il momento di interrogarci sullo “stato di salute” della stessa bioetica: da dove viene, a che punto si trova, dove sta andando, come si muovono i diversi soggetti implicati, quali sono le nuove sfide e le nuove vie da intraprendere, quali occasioni di formazione aperta a tutti possono essere coltivate.
Al Convegno di sabato 11 novembre 2017 (9.30-13) a Padova c/o sede Fond. Lanza in Via Dante 55:
introduce
• BIAGI Lorenzo, Fondazione Lanza, Segretario generale
intervengono
• BARBISAN Camillo, Servizio di Bioetica, Azienda Ospedaliera di Padova
• BUSATTA Lucia, Università di Padova
• DA RE Antonio, Filosofia morale, Università di Padova
• MENEGHELLO Francesca, Ospedale San Camillo, Lido Venezia
• PEGORARO Renzo, Pontificia Accademia per la vita, Roma
coordina
• BERTIN Germano, Rivista “Etica per le professioni”

PER UNA BIOETICA RINNOVATA | 2017 – 2018
INVITO | ISCRIZIONI APERTE | SCUOLA di BIOETICA
” … finalità prioritaria della Scuola è offrire agli iscritti un metodo di apprendimento e un modello didattico che li renda idonei ad affrontare le diverse questioni e problematiche legate alla bioetica, fino a rendere ciascuno una sorta di “cellula” del buon consiglio, capace di generare e ri-generare in sé e attorno a sé, nella quotidianità e in ogni ambito di vita, una sempre piú alta consapevolezza e determinazione professionale “trasformativa” …

PER UNA BIOETICA RINNOVATA
INVITO | ISCRIZIONI APERTE | SCUOLA di BIOETICA | Programma 2017 – 2018
” … finalità prioritaria della Scuola è offrire agli iscritti un metodo di apprendimento e un modello didattico che li renda idonei ad affrontare le diverse questioni e problematiche legate alla bioetica, fino a rendere ciascuno una sorta di “cellula” del buon consiglio, capace di generare e ri-generare in sé e attorno a sé, nella quotidianità e in ogni ambito di vita, una sempre piú alta consapevolezza e determinazione professionale “trasformativa” …
si rivolge a
operatori in ambito sanitario, membri comitati etici, insegnanti, formatori, educatori, funzionari e dirigenti pubblici, operatori della comunicazione, cittadini e persone sensibili ai temi della vita e dell’etica civile
Iscrizioni

Siamo un popolo incivile? Oppure, piú semplicemente, siamo cosí abituati a indossare, di volta in volta, maschere per “salvarci la faccia”, che …? Sono domande che sempre piú spesso ci piovono addosso. Non fosse altro perché quasi ogni giorno veniamo a conoscenza di comportamenti di corruzione e di immoralità professionale, che svelano pratiche per nulla isolate o imputabili alla solita classe politica e burocratica.
Il momento tumultuoso che stiamo attraversando lascia intendere che tutta questa attività illegale e di corruzione non rinvia solo a organizzazioni note e delineate, ma anche alla presenza significativa di una corruzione e di una illegalità ormai diffuse all’interno del corpo stesso del nostro Paese. In altre parole, l’impressione è che il malcostume incivile sia ben distribuito e ben insediato nel corpo della stessa nostra società italiana. Dobbiamo essere consapevoli di questo ma non fermarci qui.
C’è una limpida ed essenziale frase di Aristotele: «Chi è cittadino? È cittadino colui che è capace di governare e di essere governato». Forse che oggi questa sobria e incoraggiante visione aristotelica non risponde piú alla nostra realtà di vita civile? Non sono pochi a ritenere che oggi tutta la vita politica ed economica sembra mirare precisamente a farci disimparare la cittadinanza responsabile, a convincerci che i problemi devono essere affidati agli esperti, ai tecnici, perché come semplici cittadini non ne siamo in grado. Esiste dunque un movimento neanche tanto implicito di contro-educazione politica. Gli stessi nuovi movimenti populistici si reggono su questa contro-educazione, nel momento in cui non si avvicinano al popolo dei cittadini per servirli ma per agitarli contro tutto. Mentre ciascuno di noi dovrebbe abituarsi a esercitare ogni sorta di responsabilità e a prendere iniziative, veniamo invece abituati a seguire, o ad assumere decisioni presentate da altri. E qual è il risultato? Dato che la gente non è affatto idiota, Cornelius Castoriadis sosteneva che è sempre meno disposta a credere, e diventa sempre piú cinica. Passa dal “civismo” al “cinismo”, come ha scritto una volta Ilvo Diamanti.
E non facciamo fatica a costatare che le attuali istituzioni ci respingono, ci allontanano, ci dissuadono dal partecipare alla politica come capacità di governare e di essere governati. Mentre diverse ricerche ed esperienze anche nel nostro Paese ci mostrano che la migliore educazione civica è la partecipazione attiva alla cura dei beni comuni. Questo però implicherebbe una trasformazione delle istituzioni per consentire e incentivare questa partecipazione.
L’educazione dovrebbe essere molto piú imperniata sul bene comune e sulla casa comune. Occorrerebbe comprendere i meccanismi dell’economia, della società, della politica e cosí via. Dobbiamo riconoscere, certo, che non è facile. Il cittadino di Aristotele non era immerso in quella che oggi chiamiamo sinteticamente la “complessità” dei problemi che ci riguardano tutti. In questo numero della nostra rivista infatti non viene taciuta né rimossa la complessità dell’essere cittadini che partecipano all’impresa comune della convivenza.
Complessità legata all’intreccio o alla connessine dei vari problemi e sfide. Non ultima la configurazione globale di diverse problematiche, soprattutto economiche, ambientali, finanziarie, sociali e geopolitiche. Ma l’apporto dei contributi qui proposti non si lascia paralizzare da questa situazione. Gli interventi della prima parte offrono una lettura della realtà avendo di mira non tanto una mera diagnosi ma lo sforzo di aprire piste percorribili proprio nel mezzo della complessità in cui ci troviamo. Mentre nella seconda parte la ricchezza delle esperienze in atto e delle pratiche che una molteplicità di associazioni e di gruppi di cittadini stanno portando avanti concretamente, ci apre un orizzonte promettente per il nostro impegno di cittadini attivi e responsabili. Non sono soltanto belle parole ma opportunità reali di praticare la saggezza di governare ed essere governati.
Il desiderio di partecipazione – come ebbe ad affermare Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979 da un sicario ingaggiato dal banchiere siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli stava indagando – ha bisogno di confini piú larghi degli steccati dei partiti nazionali, perché se da una parte esiste la politica istituzionalizzata nei partiti e dall’altra l’antipolitica, corrosiva e distruttiva, solo il civismo – con la sua apertura – può dare una risposta alla partecipazione, senza imbrigliarla in uno schematismo chiuso e stretto. E noi condividiamo con lui questa prospettiva, anche se è esigente e richiede un risveglio dalla nostra apatia e dalla nostra frustrazione. Se il civismo viene definito come «la sensibilità per le esigenze della comunità in cui il cittadino vive» e come «il senso dei propri doveri di cittadino», è da qui che dobbiamo iniziare, cioè da noi stessi, in quanto consapevoli che il destino del bene comune è consegnato anzitutto alla nostra cura. Dunque, è davvero tempo di “toglierci la maschera”: e cominciare ad agire.
Lorenzo Biagi

MILANO, 1 – 2 aprile 2017 | “ETICA CIVILE … E OLTRE?” | Secondo Forum nazionale di Etica Civile
• Si svolge l’1-2 aprile 2017 al Centro San Fedele (Via Hoelpi 3/B) a Milano, promosso da un network di associazioni attive in tutto il territorio italiano.
• Un convegno per ritrovare le ragioni per vivere bene assieme, nelle nostre città, nello spazio nazionale, nella società globale.
• Un appuntamento aperto a tutti, un invito alla condivisione di tante pratiche civili, al dialogo a molte voci, alla ricerca di prospettive di bene comune.
• Quattro le sessioni previste, con momenti assembleari e gruppi di confronto e discussione.
• Tra i relatori, il cardinale Peter Turkson, Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, l’ex magistrato Gherardo Colombo.
• Sabato sera, uno spettacolo di teatro civile sul tema della crisi economica, prodotto da Pop Economix.

La ragione principale per cui la rivista di Etica per le professioni continua a essere fedele nell’accendere i riflettori sullo Sport, è data dal fatto che l’arcipelago delle pratiche sportive rappresenta, forse in maniera unica, quell’àmbito della vita degli uomini in cui meglio di altri emerge senza moralismi la natura dell’etica. Infatti, l’etica ha a che fare prima di tutto con la “forma di vita” e cioè con l’insieme di pratiche grazie alle quali gli uomini regolano la loro vita personale e comunitaria. E ogni forma di vita è fatta di esigenze di condotta e sentimento che tutti gli uomini condividono, anche se non sempre in maniera cosciente. È come un basso continuo che sostiene, quasi mai in maniera invadente, le nostre visioni di fondo e le nostre scelte, sulla base del nostro essere tutti uomini. Ma ci sono esperienze privilegiate in cui tutto questo tesoro sotterraneo viene alla luce per risplendere e per suscitare in noi un assenso spontaneo di adesione. Lo sport, radicato sull’universale antropologico del gioco, è una di queste esperienze privilegiate in cui tutti siamo contenti di rispecchiarci e di riconoscerci. Anche perché in queste esperienze ultime, il male non riesce mai ad annientare il bene che c’è in esse.
Abbiamo detto che lo sport è una di queste esperienze. Prima di tutto ce lo dicono alcuni dati essenziali dell’ISTAT, che l’hanno scorso ha fornito i dati del “no profit nello sport”. Le istituzioni non profit sportive sono 92.838, pari al 30,8% delle istituzioni non profit censite. Oltre sei istituzioni sportive su 10 sono nate nell’ultimo decennio (+ 61,5% rispetto al 2000), 6.800 quelle che hanno erogato i propri servizi a persone con i disagi. Nel settore è attivo un milione di volontari (il 92,2% delle risorse umane impiegate), 13mila lavoratori dipendenti e 75mila lavoratori esterni, per lo piú giovani: il 23,7% è under 30. Sono 61mila gli atleti, allenatori, accompagnatori, istruttori. Nel corso del 2011 le istituzioni sportive hanno registrato un flusso di entrate economiche di oltre 4,8 miliardi di euro di entrate (il 7,6% del totale relativo al non profit) e di uscite di oltre 4,7 miliardi di euro (8,2%). Il settore è cresciuto del 5% nel totale non profit rispetto al 1999, mentre è cresciuta di oltre il 60% la quota di istituzioni sportive costituitesi nell’ultimo decennio. Nel settore è attivo un milione di volontari, 13mila lavoratori dipendenti e 75mila lavoratori esterni. È alto il livello di partecipazione dei soci, circa il 75% del totale. Bolzano, Valle D’Aosta, Trento, Friuli Venezia Giulia, Toscana e Marche sono i territori in cui l’attività sportiva è piú diffusa. Il privato è la principale fonte di finanziamento. Inoltre, dallo studio emerge che sono oltre 4 milioni e mezzo gli atleti italiani tesserati (il 31% in piú rispetto al 2003) dagli organismi riconosciuti dal CONI, un milione invece gli operatori sportivi (dirigenti sportivi e federali, tecnici e ufficiali di gara) e 64.829 le società sportive. Numeri che continuano a crescere: è pari al 3,6% la crescita decennale del numero di società sportive, 1,6% quella relativa al numero degli operatori sportivi. Il 54% è la percentuale degli atleti tesserati che ha meno di 18 anni. Il 30% ha un’età compresa tra gli 8 e i 13 anni, mentre il 25% ha un’età superiore a 36 anni. A livello di pratica sportiva ammonta al 42% la percentuale dei sedentari, ma sono aumentati, fino a toccare il 30%, i praticanti assidui.
Anche se il quadro statistico non è completo, ci accorgiamo che stiamo parlando di qualcosa che conta veramente nel nostro paese. E se i numeri non riescono a dire talvolta quello che piú conta, almeno in questo caso essi indicano un senso e una direzione. Il senso risiede nel fatto che lo sport costituisce stabilmente un asse portante della nostra vita sociale. Un polo performativo della nostra forma di vita. Un ambiente in grado di dare forma a valori e regole di vita che contribuiscono a farci vivere bene insieme, valorizzando nello stesso tempo ciò che ciascuna persona porta in sé di originale e di proprio.
La direzione è altrettanto importante: non possiamo mortificare e svuotare dall’interno l’ambiente sportivo caricandolo soltanto sul valore economico e commerciale. Se il denaro diventa l’unico generatore simbolico, colonizzando anche lo sport, dobbiamo essere consapevoli che alla fine lo sport viene certamente ucciso e con esso anche un pilastro della nostra forma di vita di uomini.
Ma in questo numero le diverse esperienze di vita sportiva e sociale raccolte ci vengono a dire che la specialità dello sport è anche quella di rendere testimonianza che, come affermava il filosofo Paul Ricoeur, il bene è anteriore al male e possiamo «verificare che per quanto radicale sia il male, esso non è cosí profondo come la bontà». Dobbiamo ringraziare in modo particolare Daniele Redaelli e Gian Luca Pasini, de La Gazzetta dello Sport, che con i loro “racconti di vita” sono andati a scovare questa profondità del bene che lavora grazie allo sport per ridare dignità a persone e comunità. Forse per ora sono delle oasi. Ma le oasi indicano il sogno ricorrente degli uomini di fare del mondo una grande oasi aperta a tutti. Senza muri né frontiere.
Lorenzo Biagi

Contenuti e obiettivi
- Il CORSO si rivolge a insegnanti ed educatori, dirigenti scolastici e dirigenti sportivi, formatori e operatori sportivi, allenatori e preparatori atletici, giornalisti e giornalisti sportivi.
- Il Corso intende accompagnare i partecipanti attraverso alcuni precisi quesiti: qual è il posto del conflitto nella nostra vita? Che relazione ha con l’etica: l’etica risolve il conflitto o insegna ad attraversarlo? Quale ruolo gioca nell’educazione sportiva e in generale? Qual è il messaggio dello sport in ordine al conflitto, a partire ad esempio dalla tradizione agonistica? Come discernere e gestire un conflitto generativo da un conflitto mortifero? Come “portare” un conflitto quando diventa “conflitto interiore”, magari provocato da fattori esterni? Conflitto, etica, professioni, sport: cosa hanno a che fare con la vita dei singoli e della comunità civile?
- La particolarità del metodo didattico-pedagogico che rende “protagonisti”, e non semplici uditori, i partecipanti, è una straordinaria opportunità per rientrare in sé stessi, ascoltarsi, rileggere il contesto nel quale si opera e determinarsi verso scelte che ottengono di fare in modo diverso le cose di tutti i giorni, per cambiare davvero il proprio agire professionale, personale e sociale.
È promosso da
- Fondazione Lanza Istituto di ricerca nel campo dell’etica. La sua attività di ricerca e formazione si articola in cinque progetti: etica filosofia teologia, etica e politica ambientale, etica e medicina, etica delle professioni ed etica e pratiche sportive.
- Rivista EPP – Etica per le professioni Progetto editoriale che punta a favorire l’approfondimento di problematiche etiche collegate alla pratica della professione, in particolare rispetto agli ambiti della bioetica, dell’economia, dell’ambiente, della formazione, dello sport.
Si rivolge a
- insegnanti ed educatori
- dirigenti scolastici e sportivi
- formatori e operatori nello sport
- allenatori e preparatori atletici
- psicologi e psicoterapeuti
- giornalisti e giornalisti sportivi
Veronica Brutti, Pedagogista e allenatrice presso la Scuola Calcio Società sportiva Hellas – Verona
Il calcio è lo sport piú amato e praticato in Italia, sia dagli adulti che dai bambini. Analizzando la formazione predominante del giovane calciatore nelle società di calcio contemporanee, si può notare come in quasi tutte essa abbia una direzione finalizzata a vivere l’allenamento come un esercizio meramente tecnico che punta ad avere come unico obiettivo la vittoria a ogni costo e, per questo motivo, tenda verso una specializzazione precoce.
Il tema di fondo che unisce queste questioni e al quale meno si pensa, è il tema del “tempo”, un tempo accelerato, un tempo da sfruttare, un tempo “fast”.
La mentalità secondo la quale il semplice giocare è “perdere tempo” è diffusa tra i genitori, come tra gli allenatori (1). Questo porta a un paradosso: il gioco del calcio non è un gioco. Forse non è un caso che anche nelle Scuole Calcio la parola allenatore sia piano piano sostituita nell’uso dalla parola tecnico, che deriva appunto dalla tecnica, l’arte di saper fare.
Piú che accompagnatore, dunque, l’allenatore impartisce nozioni e regole attraverso un metodo principalmente deduttivo, che non prevede, ad esempio, la scoperta delle cose da parte del bambino attraverso l’errore, ma richiede solamente che venga appresa ed eseguita la consegna impartita nel minor tempo possibile. In questo modo, la strada verso la vittoria sembra piú facile ed efficace.
L’essenza del gioco è certamente la competizione, anche per i bambini: il gioco è un mezzo che permette al bambino di misurarsi con e attraverso i propri coetanei e con sé stesso, avendo l’obiettivo di vincere e primeggiare.
Il concetto di competizione, tuttavia, è ambiguo. Da una parte, vi è la prospettiva secondo la quale la si considera «esclusivamente o prevalentemente governata dalla logica binaria vincereperdere». Parallelamente, c’è l’altro modo di intendere la competizione, che deriva direttamente dalla sua etimologia: cum-petere, ossia tendere insieme verso una certa direzione, che «mette al centro non solo l’esito finale della competizione, ma il suo processo; in altri termini, la vittoria non è l’unità di misura del successo, ma ne costituisce solo una parte, poiché il valore della competizione sta nel modo in cui si è sviluppata in tutto il suo percorso» (2).
L’etica dello sport muore quando le istituzioni, le società sportive e le persone vogliono la «… ”vittoria a ogni costo”. Questo è un modo di concepire l’obiettivo che viola la dignità dell’atleta ed è anche estraneo alla vera e nobile essenza dello sport, che è stata notevolmente snaturalizzata negli ultimi anni» (3).
Di conseguenza risulta fondamentale il compito dei genitori e dell’allenatore, ossia di quelle figure che devono guidare il giovane calciatore a ricercare una vittoria che avvenga nel rispetto delle regole, dei compagni e dell’avversario. «Ricordiamoci che non sono tanto i bambini a rivendicare la voglia di crescere in fretta, di bruciare le tappe, quanto piuttosto gli adulti che sembrano volerli inserire sempre prima nel tessuto sociale, valorizzando con orgoglio la loro precocità: da qui nascono i tecnicismi, la specializzazione precoce, la ricerca della vittoria come obiettivo primario» (4).
L’allenatore può diventare l’esecutore di un modo di pensare e di agire che dia una legittimazione tecnica alla vittoria “ad ogni costo”. Ma egli può anche porsi in modo del tutto diverso e ritenere che sia indispensabile educare il bambino a mettersi in gioco in modo sano; ciò significa aiutarlo a riconoscere il valore sia della vittoria sia della sconfitta: «In una società basata sul successo, sul guadagno e sul vincere, abbiamo mai riflettuto sull’importanza e sul valore pedagogico del “perdere”?» (5), si chiede il pedagogista Gianfranco Zavalloni.
Nel mondo del calcio (e non solo), i bambini o i ragazzi che hanno mostrato di avere una maggiore predisposizione di altri nel praticarlo vengono chiamati “giocatori di talento”. Il talento sportivo è l’insieme di «determinati presupposti fisici e psichici che, con certa approssimazione, potrebbero portare a raggiungere risultati di elevato livello sportivo» (6).
Non è ovviamente sbagliato promuovere nei bambini lo sviluppo del loro talento: ciò che va specificato è come avvenga questa promozione. La ricerca del talento ha portato i settori giovanili calcistici a una riduzione dell’età per entrare a far parte dell’attività agonistica, con le conseguenze del drop-out e dell’assenza dei risultati attesi.
La causa dell’insuccesso sportivo di molti giovani è arrivata per una «errata interpretazione del concetto di specializzazione», afferma ancora Zavalloni (7). Bisogna infatti distinguere tra “specializzazione sportiva” e “specializzazione precoce”: «La specializzazione sportiva è, infatti, intesa come processo di formazione sportiva che mira al perseguimento delle competenze proprie di una disciplina sportiva. Mentre la specializzazione precoce è intesa come accezione negativa del processo di specializzazione sportiva instaurato in età inadeguata che porta alla stagnazione della prestazione» (8), all’abbandono in giovane età, alla frustrazione e al calo della performance.
La specializzazione precoce c’è perché «l’obiettivo (del club e degli allenatori) che si pongono non è tanto quello di allenare le persone per la vita, ma di fargli raggiungere in breve tempo uno standard di prestazione elevato che abbia una positiva ricaduta economica a livello societario» (9). Questo tipo di allenamento, quando è applicato al bambino, oltre a essere frustrante perché chiede al bambino ciò che naturalmente non può dare, non rispetta le fasi del suo sviluppo psichico e fisico.
Occorre una cultura calcistica che sappia dare il giusto valore al tempo proprio di ogni bambino e di ogni persona, cosí da cercare di evitare le conseguenze nelle quali quasi sempre si inciampa, adottando una fast education: violenza, disonestà e abbandono precoce.
Educare alla lentezza: proposta per lo sviluppo di una nuova cultura calcistica
L’educazione calcistica lenta (Slow Foot) è una risposta culturale che cerca di risolvere i problemi che genitori, dirigenti, allenatori e bambini si trovano spesso ad affrontare nel mondo del calcio giovanile. Anche se adeguati al contesto, i princípi su cui si basa la Slow Foot sono gli stessi utilizzati dagli altri movimenti slow, come lo Slow Food e la Slow School, e sono:
• il bambino come soggetto avente diritti;
• la centralità del bambino nel processo educativo e, quindi, il valore della persona intesa come fine e mai come mezzo;
• l’importanza della dimensione emotiva, cognitiva e sociale come strumento di crescita personale e nelle relazioni;
• l’importanza di costruire profonde relazioni tra tutti i soggetti coinvolti, educatori e educandi;
• lo sviluppo di un tempo qualitativo, inteso come dare pieno significato a tutto ciò che si fa e che si ha attraverso il principio dell’“aver cura”;
• la valorizzazione dell’esperienza attraverso il metodo della scoperta e del dialogo, sviluppando un modello dialogico che si ispira alla maieutica socratica;
• il concetto di lifelong learning: educare per la vita in ogni ambito della vita.
Come per le altre attività svolte dal Settore Giovanile e Scolastico della Federazione Italiana Gioco Calcio, anche lo Slow Foot si deve fondare sulla Carta dei diritti dei ragazzi allo sport (Ginevra, 1992):
• il diritto di divertirsi e giocare;
• il diritto di fare sport;
• il diritto di beneficiare di un ambiente sano;
• il diritto di essere circondato e allenato da persone competenti;
• il diritto di seguire allenamenti adeguati ai suoi ritmi;
• il diritto di misurarsi con giovani che abbiano le sue stesse possibilità di successo;
• il diritto di partecipare a competizioni adeguate alla sua età;
• il diritto di praticare sport in assoluta sicurezza;
• il diritto di avere giusti tempi di riposo;
• il diritto di non essere un campione (10).
Quando si parla di bambini e ragazzi, è importante parlare di diritti perché permette di considerarli «individui dotati di autodeterminazione, capacità e risorse» (11) e non solo soggetti bisognosi. Parlare di diritti permette di concepire un progetto come valido e realizzabile solo nel momento in cui si percepisce in esso che il bambino-persona è considerato come unico centro e fine del progetto.
L’attività del giocare appartiene paradossalmente a una dimensione slegata dal tempo e dallo spazio: il fatto che per giocare non vi sia un solo tempo fa vorevole, consegna un grande “segreto” sul quale sviluppare l’idea di una società migliore non solo calcisticamente parlando: si può «giocare mentre si studia, mentre si fanno i lavori di casa, mentre si lavora, trasformando queste attività in “gioco”. È persino possibile giocare mentre si fa sport!» (12).
Il filosofo Johan Huizinga, con il suo Homo Ludens, insegna che la cultura altro non è che un grande gioco che viene giocato e che l’uomo, oltre che essere un uomo che sa e un uomo che fa, è anche un uomo che gioca. Non è solo il bambino che gioca; in realtà non si smette mai di giocare neanche quando si diventa adulti.
Un progetto educativo fondato sui diritti permette di approfondire il concetto di dignità del bambino e della sua libertà in quanto persona. Pensare il bambino come “unico” nella moltitudine significa considerarlo nella totalità della sua grandezza; ne consegue che ogni fanciullo dovrà essere l’unico fine possibile di ogni progetto educativo messo in atto.
L’espressione kantiana della persona considerata come fine e non come mezzo permette di porre la domanda chiave per un corretto sviluppo educativo, come insegna la filosofa Martha Nussbaum: «Che cosa può fare ed essere ciascuna persona?» (13). È da qui che deve partire ogni azione educativa.
Bisogna considerare, inoltre, che ogni processo di apprendimento coinvolge lo stato affettivo sia degli educandi sia degli educatori. È cosa ben nota che ogni relazione – dunque anche la relazione educativa (14) – «comprende sempre una dimensione affettiva, la quale coinvolge pensiero e sentimenti» (15).
Nel calcio l’emotività entra inevitabilmente in gioco e non si può non tenerne conto. Per un allenatore, fermarsi ad ascoltare quello che un bambino vuole comunicare (non soltanto a parole, ma anche attraverso i suoi atteggiamenti), può essere un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo finale, solo se l’obiettivo finale è vincere piú partite possibili.
Se invece l’obiettivo è la formazione del giovane calciatore in quanto persona, quindi un obiettivo a lungo termine, le emozioni non possono essere un intralcio o un disturbo, ma devono essere comprese e utilizzate come basi del processo di apprendimento, soprattutto in uno sport nel quale l’individuo è sempre situato in un contesto-gruppo.
L’assenza di affettività «provoca una “freddezza relazionale” che marca la distanza tra i protagonisti della relazione educativa, nega valore a ogni apertura all’incontro e, soprattutto, marca la separazione tra mente e cuore, cioè tra due logiche comportamentali tanto diverse quanto intrecciate tra loro» (16).
Imparare a gestire e ad armonizzare le proprie emozioni permetterà al giovane calciatore di avere anche una maggiore padronanza tecnica in mezzo al campo. Per questo motivo, è fondamentale aiutare il giovane calciatore a sviluppare le Life Skills, dieci competenze di vita che aiutano il bambino a trasformare le proprie emozioni, sia positive sia negative, in una forza capace di favorire uno stile di vita positivo.
Esse sono:
a) Life Skills emotive: consapevolezza di sé, gestione delle emozioni, gestione dello stress;
b) Life Skills cognitive: risolvere i problemi, prendere decisioni, avere senso critico, creatività;
c) Life Skills sociali: empatia, comunicazione efficace, relazioni efficaci (17).
Data la loro importanza, risulta evidente la necessità per i bambini di avere al loro fianco un allenatore che li sappia accompagnare nel loro percorso di crescita, contribuendo a sviluppare le loro competenze nei riguardi della vita attraverso una relazione di cura; un allenatore, però, che abbia sviluppato prima di tutto in sé stesso le Life Skills.
Egli deve essere consapevole del fatto che non può essere solo un allenatore “di campo”, ma anche un «regista di scenari cognitivi/affettivi(…)», un «creatore di contesti di apprendimento», un «elaboratore di situazioni globalmente allenanti» e «mediatore, in contesti educativi, fra l’analitico e il globale, fra la specializzazione motoria e le qualità umane, fra la maestria sportiva e l’intelligenza emotiva» (18).
Lo psicologo americano Daniel Goleman parla di Intelligenza emotiva per spiegare quanto le emozioni siano importanti nelle scelte che si compiono e quanto importanti siano in particolare nei bambini, perché questo tipo di intelligenza è «la capacità di motivare sé stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e, ancora, la capacità di essere empatici e di sperare» (19).
Aver cura del tempo
Luigina Mortari, pedagogista e docente di Epistemologia della ricerca qualitativa all’Università degli Studi di Verona, afferma che la prima cosa da imparare è «aver cura dell’esistenza», che significa «imparare l’arte di esistere (…), quella sapienza che lavora sul tempo per farne una composizione di senso» (20).
Prima di tutto, dunque, è importante riuscire a governare il tempo, quella dimensione che permea la nostra vita, ma che, come dice Sant’Agostino, sappiamo che cos’è solo quando nessuno ce lo chiede (21).
Aver cura del proprio tempo significa aver cura di sé, primo passo da fare per chi si accinge al lavoro di educatore: solo dopo aver compreso chi è, l’educatore può aiutare la persona, che ha davanti a sé, a scoprire sé stessa.
In educazione, educare alla lentezza significa essere capaci di dare a ciascuno il tempo del quale ha bisogno. Specificatamente, nel calcio significa considerare i tempi di crescita di ogni bambino e programmare l’attività in base al suo sviluppo. Solo in questo modo si può pensare di aver cura del giovane calciatore. L’etica dell’aver cura non può essere limitata nel tempo. I princípi e i valori che rendono la vita migliore dal punto di vista etico devono necessariamente avere valore permanente: è questo il concetto di lifelong learning, educazione per tutta la vita in ogni àmbito della vita. Ciò che un giovane calciatore impara durante l’orario di allenamento deve poi essere trasferibile in classe come nella vita di tutti i giorni: di conseguenza, ciò che un bravo allenatore insegna non è solo un saper fare, ma anche un saper essere.
La figura dell’allenatore di calcio
In inglese, l’allenatore è il coach, e il verbo che ne deriva è to coach, cioè accompagnare. Anche in altre lingue il termine rimanda sempre al significato latino del verbo tradere, seguire o accompagnare (22).
Questo significa che l’allenatore, e di conseguenza l’allenamento, hanno una forte valenza pedagogica, considerando che allenare, attraverso questa chiave di lettura, si avvicina sensibilmente al termine educare: accompagnare il bambino a rendere “atto” quello che è ancora in “potenza” dentro di lui.
L’allenatore è una figura fondamentale per la crescita del bambino ed egli si dovrebbe rendere conto di questa profonda responsabilità: «è una responsabilità che fa o dovrebbe far tremare le vene e i polsi, perché si tratta di costruire la nuova generazione, il mondo di domani» (23).
Per questo, l’educatore sportivo deve rendere il tempo della relazione (in campo e fuori dal campo) un tempo di qualità, considerando ogni momento come “un” momento. Il metodo attraverso il quale l’allenatore opera è di fondamentale importanza per capire i giovani anziché giudicarli, per incoraggiarli invece di punirli, per ascoltare i problemi che li affliggono oltre un campo da calcio, ma che inevitabilmente si ripercuotono su quel campo, perché le emozioni non possono e non devono essere lasciate fuori dal cancello dell’impianto sportivo, ma devono essere vissute, comprese, trasformate, liberate. Il giovane calciatore va accettato in modo incondizionato perché la persona ha un valore che trascende tutto.
L’azione educativa che il mister esercita è un processo bidirezionale nel quale il giovane calciatore è un soggetto attivo che costruisce, accompagnato, la propria strada. In ogni partita e in ogni seduta di allenamento l’allenatore deve sapersi orientare, avendo sempre in mente l’obiettivo della sua azione educativa, il rapporto con il bambino e il rapporto con sé stesso.
L’allenatore deve assumere su di sé il principio socratico del “sapere di non sapere”: cosí facendo, per ogni bambino che avrà di fronte, si dovrà porre nuove domande e cercare continuamente risposte che non possono che essere svelate gradualmente dalla conoscenza del bambino stesso. In questo modo l’educatore sportivo si renderà consapevole dei propri limiti (che deve continuamente cercare di superare) e della responsabilità educativa che assume su di sé.
Una nuova cultura calcistica
La convinzione che una riflessione sul tempo vada fatta, è sempre piú viva in me perché «la materia della nostra vita è il tempo e di questo occorre imparare ad aver cura tracciando fili di senso che tessano insieme gli attimi della vita» (24).
Bisogna partire dai bambini per sperare in calciatori migliori, cittadini piú attenti, maestri piú “lenti”. Forse la chiave di volta per superare la crisi educativa nelle Scuole Calcio sta proprio qui: nel ripartire da un gioco e da chi ne è padrone indiscusso, il bambino.
Bisognerebbe farsi un po’ da parte, noi adulti con i nostri corpi pesanti, lasciando spazio e tempo a chi ha veramente qualcosa da dire, come i bambini. Bisognerebbe lasciare cadere per un attimo tutte le nostre teorie, gli esercizi tecnici, i metodi, gli schemi e, semplicemente, ascoltare. Bisogna rendere i bimbi padroni del loro tempo e capire che, come scriveva Seneca, il tempo va custodito (25).
Nel momento in cui decidiamo di dare senso al nostro tempo, decidiamo di esistere. E non esiste momento della nostra vita che non sia emozionante.
Veronica Brutti
Pedagogista e allenatrice presso la Scuola Calcio Società sportiva Hellas – Verona
Note
1) Mi è stato riportato da un genitore che un allenatore all’affermazione di un bambino: «Mister, mi sto annoiando», egli abbia risposto che «non si doveva divertire, ma allenare». L’età del bambino era di 7 anni. Un altro episodio che identifica ulteriormente questo fenomeno riguarda una mail arrivata al responsabile organizzativo degli Aic Camp nel mese di Settembre 2013, nella quale un nonno di un bambino di 7 anni suggeriva «da grande amante del calcio» di non limitare i bambini a «farli giocare e basta», ma a impartire lezioni teoriche sul calcio: «Mi ha sorpreso che mio nipote, anche dopo una “full immersion” di 5 giorni non conoscesse ancora i concetti di triangolo, tackle, cross, centrocampo/ista, fasce ecc. Implementerei, quindi, le lezioni teoriche sul gioco».
2) R. Farné, Il gioco e lo sport, lo sport nel gioco, in R. Farné (a cura di), Sport e infanzia. Un’esperienza formativa tra gioco e impegno, Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
3) C. A. Cordente Martinez, Rendimento sportivo, allenamento e valori educativi, in E. Isidori, A. Fraile Aranda, (a cura di), Pedagogia dell’allenamento. Prospettive metodologiche, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012, p. 31.
4) M. Bounous, La valenza educativa nello sport, in Pedagogika.it, XVII (3) 2013, p. 35.
5) G. Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una Scuola lenta e non violenta, Emi, Bologna 2008, p. 34.
6) Ibidem.
7) Ibidem, p. 94.
8) Ibidem.
9) M. Benetton, Valori e disvalori educativi nell’allenamento sportivo in età precoce, in E. Isidori, A. Fraile Aranda, (a cura di), Pedagogia dell’allenamento …, op. cit., p. 104.
10) FIGC SGS, Comunicato ufficiale n. 1 stagione sportiva 2014/2015, p. 27, http:// www.figc.it/Assets/contentresources_2/ ContenutoGenerico/73.$plit/C_2_ContenutoGenerico_2524953_DettaglioAreaStampa_lstAllegati_0_upfAllegato.pdf.
11) P. De Stefani, Il gioco come diritto umano. Conclusione del Convegno, in E. Toffano Martini (a cura di), «Che vivano liberi e felici…». Il diritto all’educazione a vent’anni dalla Convenzione di New York, Carocci editore, Roma 2012, p. 165.
12) P. De Stefani, Il gioco come diritto umano. Conclusione del Convegno, in E. Toffano Martini (a cura di), «Che vivano liberi e felici…, op. cit., pp. 166-167.
13) M. C. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, trad. dall’inglese, il Mulino, Bologna 2011, p. 26 [ed. or., Creating Capabilities. The Human Development Approach, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, London, 2011].
14) D. Loro, Grammatica dell’esperienza educativa. La ricerca dell’essenza in educazione, Franco Angeli, Milano 2012, p. 111.
15) S. Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma 2003, p. 83.
16) D. Loro, Grammatica dell’esperienza educativa …, op. cit., p. 111.
17) http://www.lifeskills.it/cosa-sono-le-lf.
18) C. Maulini, L’allenatore-educatore nel positive youth Development, in E. Isidori, A. Fraile Aranda, (a cura di), Pedagogia dell’allenamento …, op. cit., p. 195.
19) D. Goleman, Intelligenza emotiva, trad. dall’inglese, BUR, Milano 2013, p. 65 [ed. or. Emotional intelligence, 1995, by Daniel Goleman].
20) L. Mortari, Aver cura di sé, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 1.
21) «Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so: cosí, in buona fede, posso dire di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente. Ma in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, piú non è, e il futuro, dall’altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non piú sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, per conseguenza, il presente per essere tempo, in tanto vi riesce, in quanto trascorre nel passato, in qual modo possiamo dire che esso sia, se per esso la vera causa di essere è solo in quanto piú non sarà, tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere?» (cfr.: Agostino, Le confessioni, XI, 14 e 18, Zanichelli, Bologna 1968, pp. 759).
22) Nel libro Pedagogia dell’allenamento. Prospettive metodologiche, Emanuele Isidori fa una splendida analisi etimologica della parola “allenatore” (pp. 10-11).
23) L. Maffei, Elogio della lentezza, il Mulino, Bologna 2014, p. 33.
24) L. Mortari, Aver cura di sé …, op. cit., p. 4.
25) L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, Lettera 1, trad. dal latino, Rizzoli, Milano 1966, p. 11 [ed. or. A Lucilium epistularum moralium, libri XX].